martedì 25 novembre 2014

Work – life balance: come conciliare il lavoro e la vita

Il tema del work – life balance sta acquisendo un’importanza sempre maggiore all’interno del nostro contesto lavorativo, a causa del frequente intreccio tra vita lavorativa ed extra lavorativa. Oggi, ad esempio, vi è una maggiore partecipazione lavorativa delle donne rispetto al passato e, di conseguenza, un aumento delle coppie e delle famiglie in cui entrambi i partner lavorano. Lo sviluppo della tecnologia, inoltre, ha favorito l’intrusione del lavoro nella vita privata facilitando cosi l’avvicinamento dei due contesti.


Questa crescente necessità di trovare un equilibrio trova ampio spazio nelle politiche di gestione delle risorse umane sempre più attente al benessere dei lavoratori anche in ambiti che escono dal contesto organizzativo.
Sono infatti numerose le aziende, soprattutto di medie e grandi dimensioni, che promuovono programmi family – friendly volti a favorire l’integrazione tra la famiglia e il lavoro. Possibili livelli di intervento riguardano le forme contrattuali, ad esempio la flessibilità oraria in entrata o uscita, azioni di sostegno e sviluppo a carattere formativo / consulenziale, agevolazioni economiche e servizi offerti all’interno dell’azienda.

Ecco alcuni esempi di programmi promossi: 

Strategie
Programmi
Esempi aziendali
Strategie basate sull’orario
Orario flessibile
Mentor Graphics ha esteso a quasi tutto il personale l’orario flessibile

Settimane di lavoro compresse
Condivisione del lavoro
Lavoro part – time
IBM consente tre anni di permesso a lavoro garantito dopo la nascita di un figlio
Permessi per i neogenitori
Telelavoro
Strategie basate sull’informazione
Sito web intranet
Ernst & Young dà accesso al sito web intranet che offre informazioni e propone forum di scambio

Servizi/sportelli di documentazione
Assistenza in caso di trasferimento
Strategie economiche
Buoni/convenzioni per la cura dei figli, viaggi, palestre,…
Alla Lucent gli impiegati con sei mesi di servizio ricevono 52 settimane di permesso per il parto a paga dimezzata
Assistenza in caso di adozione
Assicurazione sanitaria
Facilitazione per i prestiti
Servizi diretti
Cura dei figli sul luogo di lavoro
Telecom Italia ha attivato asili nido presso alcune strutture
Centri benessere o palestre interni all’azienda
Servizi di facilitazione per la commissioni
Strategie di cambiamento culturale
Formare manager e supervisori a sostenere i loro collaboratori rispetto agli impegni di conciliazione
Lucent, Marriot, Merck, Pfizer, Prudential e Xerox legano la retribuzione dei manager alla soddisfazione dei loro collaboratori
Stimolare i responsabili a valutare e valorizzare la qualità del lavoro rispetto al tempo di presenza


Un ulteriore esempio di azienda molto attenta all’equilibrio tra la vita privata e quella lavorativa è Luxottica, in cui esiste un attento sistema di welfare aziendale che prevede:

  • Shopping card individuale per acquisti di beni alimentari e di uso quotidiano
  • Contributo a diverse tipologie di spese sanitarie sostenute dai lavoratori e dai loro familiari
  • Servizio di assistenza sociale per prevenire e curare disagi della persona e dei familiari
  • Supporto per l’istruzione scolastica
  • Borse di studio per gli studenti meritevoli
 L’azienda, infatti, si dimostra molto attenta al benessere dei propri dipendenti adottando anche attive politiche di diversity management, sia in termini di gestione che di valorizzazione delle diversità.


Ma alle aziende conviene davvero promuovere tali iniziative? Quali sono i vantaggi?
Diversi studi dimostrano che i dipendenti che percepiscono un alto conflitto tra il lavoro e la famiglia provano una maggiore insoddisfazione lavorativa e personale, un minor coinvolgimento nel ruolo, maggior assenteismo, turnover e ritardi e sono maggiormente predisposti a problemi cronici di salute.
Affinché i benefici associati a tali interventi superino i costi è di fondamentale importanza effettuare un’attenta analisi dei bisogni di conciliazione dei dipendenti, in modo da poter andare incontro alle loro reali esigenze. Un ulteriore aspetto cui i responsabili delle risorse umane dovrebbero prestare particolare attenzione è la coerenza delle azioni proposte con la cultura organizzativa: deve infatti esserci un impegno effettivo e costante finalizzato al benessere dei dipendenti e non al consolidamento dell’immagine aziendale. L’attenzione al work – life balance dovrebbe quindi diventare un valore organizzativo in grado di orientare la gestione delle risorse umane promuovendone il benessere e la crescita.




Bibliografia

Argentero P., Cortese C. G., Piccardo C. (a cura di), Psicologia delle risorse umane. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2010.


sabato 28 giugno 2014

Fusioni organizzative: il punto di vista delle risorse umane


Le fusioni organizzative stanno diventando una strategia sempre più utilizzata per favorire la crescita e lo sviluppo delle imprese. In particolare, si parla di fusione quando due o più imprese cessano di esistere singolarmente e, con un ruolo paritario, danno origine ad un terzo ente che di solito assume un nuovo nome.
Tale strategia viene fortemente utilizzata poiché permette di rafforzare le competenze e la competitività dell’impresa consentendole di ottenere l’accesso a nuove opportunità di mercato. In questo modo, infatti, si può riuscire a coprire una maggiore estensione geografica, a inserirsi in nuovi mercati e a migliorare le prestazioni lavorative. Nonostante questi potenziali vantaggi, le fusioni organizzative sono delle operazioni molto delicate che richiedono molta attenzione e una precisa pianificazione in modo da poter monitorare i suoi sviluppi. Spesso, ed erroneamente, le fusioni vengono studiate e pianificate nei minimi dettagli solo da un punto di vista economico/finanziario trascurando l'elemento base delle organizzazioni: le risorse umane. I frequenti fallimenti che accompagnano tali operazioni, infatti, possono essere attribuiti al fatto di non aver preso sufficientemente in considerazione il fattore umano. Tale cambio di prospettiva è necessario e fondamentale in quanto le fusioni comportano un’imposizione di una nuova identità organizzativa che genera competitività tra i gruppi pre-fusione e ingroup bias (ciascun gruppo tende cioè a considerare se stesso in termini più positivi rispetto agli altri gruppi). Affinché le fusioni abbiano successo è quindi necessario che i dipendenti abbandonino la loro identità organizzativa precedente per mettere in atto comportamenti cooperativi nei confronti dei nuovi colleghi.
A questo proposito può essere utile far riferimento alla Teoria dell’Identità Sociale di Tajfel e alla Teoria della Categorizzazione di Sé di Turner che, studiando i rapporti inter-gruppi, ben si adattano a queste dinamiche. Secondo tali teorie, infatti, i dipendenti tendono a categorizzare se stessi come membri dell’organizzazione pre-fusione, valorizzandola e sottolineandone le qualità rispetto alle altre organizzazioni, che vengono così considerate degli “avversari”. Tale rivalità può venir considerata proprio una conseguenza della motivazione dei gruppi a voler dimostrare la propria superiorità all'interno della nuova organizzazione.

Dunque come dovrebbero venir gestite le fusioni organizzative?
Per ridurre la competizione tra i gruppi e le reazioni negative che seguono le fusioni, può essere utile promuovere lo sviluppo di una nuova identità organizzativa basata sull'idea di un ingroup comune: i dipendenti devono quindi sentirsi parte di un unico gruppo e di un’unica realtà organizzativa. Questo può essere ottenuto facendo un frequente uso del “noi” per riferirsi alla nuova organizzazione, facilitando così l’identificazione dei dipendenti. Può inoltre essere utile fare riferimento al confronto con altre organizzazioni che appartengono all’outgroup (dinamiche “noi” versus “loro”), come se rappresentassero una sorta di nemico comune. Un’ulteriore strategia può riguardare il favorire la vicinanza e il contatto tra i dipendenti, ad esempio stabilendo degli obiettivi organizzativi raggiungibili solo tramite la cooperazione e la condivisione delle informazioni. Infine può dimostrarsi utile porre l’attenzione sulle caratteristiche distintive della nuova organizzazione, sottolineandone i pregi e i punti di forza, favorendo così la costruzione di un’identità sociale positiva nei dipendenti.

Bibliografia

M. A. Hogg & D. J. Terry, Social identity processes in organizational contexts  229-247. Philadelphia: Psychology Press.

mercoledì 23 aprile 2014

Responsabilità sociale d’impresa: quando l’etica entra nel marketing


Con responsabilità sociale d’impresa (RSI), o corporate social responsibility (CSR), si intende l’assunzione di responsabilità da parte delle imprese circa l’impatto prodotto dalle proprie attività e iniziative sull’ambiente circostante. Questa viene definita dalla Commissione Europea come “l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”.
Alcuni esempi di RSI sono il prestare attenzione all’impatto del ciclo produttivo sull’ambiente, alla sicurezza dei lavoratori e della popolazione in prossimità dell’impresa e all’impatto sociale delle politiche aziendali nei confronti degli stakeholder. Le iniziative intraprese dalle imprese, inoltre, si possono estendere a diverse attività quali sponsorizzazioni di eventi culturali, donazioni a organizzazioni no profit, partecipazione a campagne di marketing sociale,…
La responsabilità sociale d’impresa nasce dalla consapevolezza che l’organizzazione non è separata dall’ambiente sociale in cui opera e, pertanto, deve prestare attenzione ai bisogni di tutti gli stakeholder, cioè i “portatori di interesse” quali dipendenti, consumatori, concorrenti, l’intera collettività e l’ambiente, e non solo degli shareholder, cioè gli azionisti.
I consumatori di oggi, infatti, sono dei soggetti attivi, critici e responsabili che prestano sempre una maggiore attenzione alla tutela dell’ambiente e al rispetto di adeguate condizioni lavorative. Questa maggiore attenzione spinge le imprese ad andare oltre il semplice prodotto venduto, concentrandosi su aspetti più immateriali legati ai valori delle persone.
La RSI, quindi, non rappresenta un costo per l’impresa bensì un investimento: si ha un rafforzamento dell’immagine dell’azienda che favorisce un vantaggio competitivo sia a breve che a lungo termine.

Un esempio di azienda particolarmente attiva da questo punto di vista è United Colors of Benetton, che da sempre si impegna in campagne di sensibilizzazione e sviluppo sostenibile. Nel sito web dell’azienda, www.benettongroup.com/it/, è infatti possibile trovare un’intera sezione dedicata alla sostenibilità in cui sono raccolte tutte le iniziative intraprese dal gruppo a tutela dell’ambiente e delle popolazioni più povere.

                        Dal 2010 Benetton utilizza appendiabiti completamente riciclabili.


E voi come consumatori prestate attenzione a questi elementi quando dovete scegliere una determinata marca?
Conoscete altre aziende che si impegnano in attività di responsabilità sociale?
Fatemelo sapere nei commenti!


Bibliografia

Tamborini, S. (1992). Marketing e comunicazione sociale. Lupetti, Milano

De Carlo, N. A., Falco, A., Vianello, M. (2009). Marketing sociale, responsabilità e sostenibilità. Psicologia delle organizzazioni. Raffaello Cortina, Milano. 

venerdì 4 aprile 2014

Il ruolo della paura nelle pubblicità

Nel mio ultimo post (Emozioni e pubblicità: quando l’umore influenza la persuasione) ho fatto riferimento alla manipolazione dell’umore utilizzata nelle pubblicità per raggiungere maggiori livelli di persuasione. Le emozioni, tuttavia, rappresentano un aspetto controverso e molto difficile da gestire: è necessario trovare il giusto livello di attivazione per non correre il rischio di sotto-stimolazione o sovra-stimolazione. Un esempio di emozione particolarmente difficile da gestire è la paura. Questa viene utilizzata soprattutto in quelle pubblicità che vogliono promuovere la salute o determinati comportamenti preventivi. Si potrebbe pensare che i risultati maggiori si ottengano con i livelli più elevati di paura, molto spesso, tuttavia, una paura eccessiva causa negli spettatori una reazione contraria. 
Una paura troppo grande, infatti, non risulta gestibile e va ad attivare dei meccanismi di negazione nella persona che, non riuscendo a controllare l’eccessiva ansia, ignora o nega il messaggio. Per questi motivi, quindi, risultano maggiormente efficaci i livelli più bassi di paura in quanto hanno una maggiore probabilità di produrre dei cambiamenti comportamentali.
Secondo la Teoria della motivazione alla protezione di Maddux e Rogers, infatti, la tendenza delle persone a mettere in atto dei comportamenti di protezione dipende dalla soddisfazione di quattro criteri fondamentali:

  1. la percezione della gravità del problema;
  2. la percezione di un senso di vulnerabilità che facilita l’identificazione;
  3. la sensazione che il comportamento raccomandato è efficace per fronteggiare la minaccia;
  4. il sentirsi in grado di mettere in atto il comportamento proposto.
Un elemento che viene spesso trascurato ma che è invece di fondamentale importanza è rappresentato dall'ultimo punto: la persona deve sentirsi capace di adottare il particolare comportamento, altrimenti non si avrà nessun cambiamento concreto.




Un esempio che soddisfa tutti e quattro i criteri? Si pensi ad una pubblicità sulla sicurezza stradale in cui vengono presentate delle statistiche sul gran numero di incidenti (1° criterio), utilizzando dei protagonisti simili al gruppo target (2° criterio), passando poi alla dimostrazione di come l’uso delle cinture di sicurezza possa ridurre i danni e salvare la vita dei soggetti stessi (3° criterio). Infine, è evidente come il comportamento proposto, cioè indossare le cinture di sicurezza, sia talmente semplice da non mettere in difficoltà le persone che si sentiranno sicuramente in grado di compierlo (4° criterio). 





Al contrario risulterà poco efficace una campagna volta a ridurre l’uso di droghe o alcol in cui non viene specificato uno specifico comportamento da mettere in atto: le persone, infatti, non si sentono in grado di smettere autonomamente e il messaggio, quindi, non avrà probabilmente l'effetto sperato.




E voi cosa ne pensate? Come dovrebbe venir utilizzata la paura per ottenere maggiori risultati?


Bibliografia
Maddux, J. E., & Rogers, R. W. (1983). Protection motivation and self-efficacy: A revised theory of fear appeals and attitude change. Journal of experimental social psychology19(5), 469-479.

giovedì 27 marzo 2014

Emozioni e pubblicità: quando l’umore influenza la persuasione


Le pubblicità, lo sappiamo, cercano di attrarci e convincerci in ormai tutti i modi possibili e immaginabili. Una strategia molto efficace e utilizzata è quella di evocare delle emozioni nello spettatore che si sentirà così maggiormente coinvolto. L’umore delle persone gioca un ruolo particolarmente importante sul livello di persuasione raggiunto dal messaggio, influenzando la profondità di elaborazione. Diversi studi, infatti, dimostrano che la manipolazione dell’umore determina particolari risultati persuasivi, in particolare:



  • quando viene presentato il messaggio e solo in un secondo momento viene manipolato l’umore, si avrà un maggiore potere persuasivo nel caso di umore positivo. Questo si verifica perché la manipolazione non influenza l’elaborazione del messaggio, che è già avvenuta, ma semplicemente lo stato d’animo del soggetto.

  • Al contrario, quando la manipolazione dell’umore precede la presentazione del messaggio, si avrà una maggiore profondità di elaborazione nel caso di umore negativo. Questo risultato si verifica poiché quando siamo di cattivo umore percepiamo che c’è qualche problema, qualcosa da risolvere e da approfondire e tendiamo quindi ad analizzare le informazioni più nel dettaglio e in profondità.
Questi due risultati sembrano in forte contraddizione tra loro ma riflettono il diverso tempo di manipolazione dell’umore: prima o dopo la presentazione del messaggio.
Quali possono essere le applicazioni in ambito pubblicitario? Semplice! Per convincerci ad acquistare un particolare prodotto basterà mostrarcelo e metterci poi di buon umore, ad esempio con un testimonial divertente o una situazione serena e felice. Un ulteriore esempio è rappresentato dalle pubblicità progresso volte a promuovere determinati comportamenti a tutela, ad esempio, della salute e della sicurezza. In questo caso viene spesso presentata una situazione forte e spiacevole che mette il soggetto in ansia e di cattivo umore e solo successivamente viene esposto il messaggio persuasivo che avrà così una maggiore influenza (si pensi alle frequenti scene di incidenti che caratterizzano le pubblicità sulla sicurezza stradale).
L'umore si dimostra quindi una variabile molto importante e che deve venir presa in considerazione nella realizzazione di un messaggio pubblicitario.

Vi vengono in mente altri esempi pubblicitari in cui viene utilizzata questa strategia?



Bibliografia
Bless, H., Bohner, G., Schwarz, N., & Strack, F. (1990). Mood and Persuasion: A Cognitive Response Analysis. Personality and Social Psychology Bulletin, 16(2), 331-345.

Briñol, P., Petty, R. E., & Barden, J. (2007). Happiness versus sadness as a determinant of thought confidence in persuasion: a self-validation analysis. Journal of personality and social psychology, 93(5), 711.



giovedì 13 marzo 2014

Outplacement: che cos’è e perché è così importante

Il contesto socio-economico in cui ci troviamo richiede continui cambiamenti ai lavoratori che devono adattarsi alle particolari esigenze del mercato attraverso un lavoro il più possibile flessibile. L’ormai famosa flessibilità, sempre più richiesta e ricercata, provoca nel lavoratore un senso di ansia e insicurezza, legato all’incapacità di sviluppare un personale percorso di carriera e di costruirsi un’identità professionale. È quindi necessaria una forma più sostenibile di flessibilità che non si traduca in una precarietà costante, ma tuteli i lavoratori tanto nell’entrata in un nuovo contesto organizzativo quanto (e soprattutto) nell’uscita dallo stesso. Proprio in questo secondo caso è importante far riferimento all’outplacement: delle società specializzate, cioè, agiscono come supporto alla ricollocazione dei dipendenti in uscita da un’azienda. Questo supporto è finalizzato a potenziare l’autovalutazione e la riqualificazione della persona, affiancandola attraverso il difficile periodo di transizione. Con l’outplacement, quindi, si cerca sia di aiutare la persona a fronteggiare l’impatto emotivo della perdita del lavoro, sia a migliorare le capacità di ricercare nuove opportunità occupazionali (descrizione del mercato del lavoro, self – marketing, costruzione del curriculum vitae, simulazione di colloqui,…), riuscendo a dimezzare i tempi di reinserimento. Questo percorso si articola in diverse fasi:

  1. Orientamento individuale: si aiuta la persona a elaborare la perdita del lavoro e a costruire una nuova identità professionale, attraverso colloqui di accoglienza e riconoscimento delle competenze.
  2. Orientamento collettivo: vengono esplicitate le finalità dell’intervento, le metodologie utilizzate, le aspettative e il programma, in modo da facilitare l’instaurarsi di una relazione basata sul rispetto reciproco. In questa fase si procede all’illustrazione dell’attuale mercato del lavoro aiutando le persone a prendere in considerazione diversi canali per la ricerca dello stesso.
  3. Formazione tecnica: in questa terza fase vengono proposti dei percorsi formativi volti ad aggiornare le competenze tecniche delle persone in uno specifico ambito lavorativo.
  4. Start – up d’impresa: questa fase facoltativa illustra i passi necessari per avviare una nuova impresa, spiegando vincoli, opportunità e analizzando la fattibilità del progetto.
  5. Accompagnamento al lavoro: si procede infine alla ricerca di una nuova occupazione attraverso un affiancamento in back office che permette l’individuazione di aziende potenzialmente interessate al profilo della persona.
Inoltre, è importante sottolineare che le agenzie che offrono tale servizio lavorano solo su incarico dell’azienda che ha licenziato la persona: è quindi necessario che quest'ultima richieda il servizio all’azienda stessa, chiedendo, ad esempio, che venga incluso nel pacchetto di buona uscita.
Questo servizio, purtroppo ancora poco conosciuto, merita una maggiore diffusione in modo che tutti ne siano a conoscenza e possano usufruirne in quei momenti di difficoltà e disperazione che accompagnano la perdita del lavoro. Nella speranza che questo aiuto possa prevenire conseguenze e comportamenti molto più gravi per la persona, che spesso si sente sola e abbandonata.

Bibliografia

Boccato, A. & Serra, A. (2010). Outplacement. Psicosociologia della riqualificazione e del ricollocamento professionale. Piccin.

www.aiso-outplacement.it


giovedì 6 marzo 2014

La relazione tra passione lavorativa e creatività


Esiste una qualche relazione tra passione lavorativa e creatività? Questa domanda è stata il punto di partenza della mia tesi di laurea. Mi sono infatti chiesta se le persone armonicamente appassionate al proprio lavoro, tendessero a mettere in atto dei comportamenti maggiormente creativi. A questo proposito è importante far rifermento alla distinzione tra passione armoniosa e ossessiva proposta da Vallerand:
  • Passione armoniosa: le persone sono mosse da una motivazione intrinseca che le spinge a impegnarsi nell'attività. Questa viene considerata importante, significativa e parte di sé. Il lavoro risulta quindi in armonia con la vita della persona che riesce a trovare il giusto equilibrio tra quest’ultimo e le altre attività (famiglia, hobby, …).
  • Passione ossessiva: la persona è mossa prevalentemente da una motivazione estrinseca, l’attività viene quindi svolta per ottenere dai vantaggi o riconoscimenti esterni. In questo caso il lavoro tende a occupare uno spazio eccessivo rispetto alle altre attività della vita, che vengono così trascurate. La persona si sente schiava e dipendente dal proprio lavoro.
Sulla base di questa distinzione, e analizzando la letteratura presente, ho ipotizzato che la passione armoniosa fosse positivamente correlata ai comportamenti creativi messi in atto nel contesto lavorativo. In riferimento ad alcuni studi già condotti, infatti, mi aspettavo che le persone armoniosamente appassionate al proprio lavoro, grazie al maggiore coinvolgimento, attenzione, impegno, adattamento e flessibilità, mettessero in atto dei comportamenti maggiormente creativi.
Inoltre, gli esiti positivi legati alla passione armoniosa dovrebbero spingere le persone a sperimentare nuove strategie e modalità lavorative allontanandosi dalle pratiche più consolidate.
I risultati ottenuti, attraverso la somministrazione di questionari, hanno confermato la mia ipotesi iniziale: più i lavoratori sperimentano una passione armoniosa e più tendono a mettere in atto dei comportamenti creativi. Questo risultato può avere importanti implicazioni a livello organizzativo: per stimolare la creatività, ad esempio, si può favorire lo sviluppo di una passione armoniosa, aiutando le persone a vivere la sfera lavorativa nel modo migliore e facilitando l’integrazione del lavoro nella vita privata. L’ambiente lavorativo, quindi, dovrebbe permettere alle persone di soddisfare i propri bisogni di competenza, autonomia e relazione in modo da facilitare lo sviluppo di una motivazione intrinseca. Allo stesso modo è importante che i lavoratori si sentano apprezzati e presi in considerazione da colleghi e superiori, venendo valorizzati per le proprie capacità e competenze. In questo modo la creatività si svilupperebbe naturalmente e in modo spontaneo, senza venir imposta dall'alto. Considerare la creatività una conseguenza naturale della passione lavorativa, può dunque dimostrarsi una buona strategia per ottenere molti vantaggi che vanno ben oltre la semplice (ma fondamentale) creatività.

Bibliografia
Ryan, R. M., & Deci, E. J. (2000). Intrinsic and extrinsic motivations: classic definitions and new directions. Contemporary Educational Psychology, 25 (1), 54-67.

Vallerand, R. J., Mageau, G. A., Ratelle, C., Léonard, M., Blanchard, C., Koestner, R., Gagné, M., & Marsolais, J. (2003). Les passions de l’âme: on obsessive and harmonious passion. Journal of Personality and Social Psychology, 85 (4), 756-767.

Zhou, J., & George, J. M. (2003). Awakening employee creativity: the role of leader emotional intelligence.
The Leadership Quarterly, 14 (4), 545-568.

giovedì 27 febbraio 2014

6 strategie per essere persuasivi



Se avete 10 minuti a disposizione vi consiglio di guardare questo video relativo ai segreti della persuasione proposto da Cialdini e Martin. 
Cialdini, esperto nell'ambito della psicologia del condizionamento e della persuasione, presenta sei scorciatoie che vengono utilizzate quando dobbiamo interpretare il mondo che ci circonda. Spesso, infatti, non consideriamo tutte le informazioni disponibili in quanto si avrebbe un eccessivo carico cognitivo e adottiamo così delle strategie semplificate.

Le sei scorciatoie sono:
  1. RECIPROCITÀ: le persone si sentono obbligate a restituire il piacere dopo aver ricevuto qualcosa. Dopo aver ricevuto un regalo o un aiuto vi sarà quindi una maggiore probabilità di restituire la gentilezza, solitamente con qualcosa di valore maggiore. In uno studio si è infatti osservato che regalare delle caramelle al momento della presentazione del conto porta a un aumento significativo delle mance. Infine, non è tanto importante “cosa” viene dato ma il “come”: è necessario essere i primi a donare e scegliere un regalo personalizzato e inatteso.
  2. SCARSITÀ: quando un prodotto è percepito come raro, tende a venir valutato come più prezioso e, di conseguenza, ci sarà un aumento dell’interesse nei suoi confronti. Può quindi essere utile adottare strategie quali le “edizioni limitate” o usare pubblicità del tipo “ultimi pezzi disponibili!” In questo modo le persone si sentono maggiormente attratte dal prodotto, proprio a causa della scarsità dello stesso.
  3. AUTOREVOLEZZA: l’esperienza della fonte sembra aumentare il suo potere persuasivo. In diversi studi si è infatti osservato che esporre diplomi e riconoscimenti negli uffici, porta a un aumento della persuasione nella persona. Inoltre tali effetti sono ancora più evidenti se sono altre persone, ad esempio dei colleghi, a mettere in luce la nostra esperienza e competenza.
  4. COERENZA: le persone cercano di rimanere coerenti con quanto detto o fatto precedentemente. In accordo con la teoria della Dissonanza Cognitiva di Festinger, infatti, le persone si trovano in una situazione di disagio e sofferenza quando vi sono delle incongruenze tra atteggiamenti e comportamenti, che portano a un cambiamento dell’atteggiamento iniziale. Ad esempio, per ridurre il numero di appuntamenti dimenticati, può essere utile farli annotare personalmente dal soggetto.
  5. PIACERE/SOMIGLIANZA: tendiamo a preferire coloro che percepiamo come simili, coloro che ci fanno dei complimenti e che cooperano con noi. Può quindi dimostrarsi particolarmente utile sottolineare le somiglianze con il nostro interlocutore o trovare dei punti in comune in modo da facilitare la successiva relazione (e il nostro potere persuasivo).
  6. CONSENSO: secondo la teoria dell’Influenza Sociale, tendiamo a osservare quello che fanno gli altri per orientare il nostro stesso comportamento. Per ottenere un certo risultato può quindi essere utile evidenziare il comportamento messo in atto da altre persone simili, che andrà a influenzare la nostra stessa condotta. Ad esempio, si è osservato che se negli alberghi viene indicata la percentuale di persone che riutilizza gli asciugamani, vi è un incremento dei clienti che tende a mettere in atto lo stesso comportamento.
Dunque non vi resta che mettere in atto queste semplici strategie e sviluppare il vostro potere persuasivo! 

venerdì 21 febbraio 2014

I 99 centesimi funzionano davvero?

“Offerta speciale: solo € 29.99!” “Sconti: tutto a € 0.99!” Quante volte abbiamo letto queste offerte? E quante volte ci siamo lasciati influenzare? L’odd pricing, ovvero la strategia di scegliere prezzi che terminano con 99, è sempre più utilizzata nel campo nel marketing, ma non sempre i suoi effetti sono noti ai consumatori né tanto meno ai negozianti.
Come si osserva dagli esempi precedenti, questi prezzi sono spesso associati a termini quali “offerte” o “sconti” e questo fa si che le persone tendano ad interiorizzare questa associazione considerando tali prezzi degli affari e quindi convenienti. Tale associazione non trova tuttavia riscontri nel mercato: diversi studi, infatti, dimostrano come questi prezzi non siano realmente più bassi, ma come si tratti di una semplice apparenza.
Nonostante questa illusione di risparmio (per il consumatore), l’odd pricing presenta diversi vantaggi (per il negoziante): ad esempio porta ad un aumento della somma di denaro speso dai clienti all’interno di un negozio e aumenta la probabilità che un determinato prodotto venga scelto, in quanto attira maggiormente l’attenzione.
Dunque usare i famosi 99 centesimi si dimostra sempre una strategia efficace? No! Diversi studi dimostrano che tutto dipende dalla marca del prodotto. Infatti, quando i clienti hanno una chiara preferenza per una marca sono maggiormente attratti dall’odd pricing in quanto percepiscono il prezzo come un’offerta e non hanno bisogno di conferme circa l’alta qualità del prodotto. Al contrario, i clienti che non hanno una preferenza specifica per una marca preferiscono i prezzi pieni (00), in quanto comunicano una maggiore qualità.
Prima di utilizzare questa strategia è quindi necessario considerare il prodotto in questione: se la marca è famosa e diffusa può essere conveniente applicare un prezzo che termina con 99, mentre quando il marchio è sconosciuto o poco diffuso può essere preferibile un prezzo pieno che comunichi alta qualità e affidabilità.

E voi cosa ne pensate di questa strategia? Vi lasciate influenzare o resistete alla tentazione delle “offerte”?



Bibliografia

Baumgartner, Bernhard & Steiner, Winfried J. (2007). “Are consumers heterogeneous in their preferences for odd and even prices? Findings from a choice-based conjoint study.” International Journal of Research in Marketing, 24(4), 312-323.

Schindler, Robert M. (2006). “The 99 price ending as a signal of a low-price appeal.” Journal of Retailing, 82(1), 71-77.